Frammenti di considerazioni sulla divulgazione scientifica nel campo delle scienze della Terra

GranSassoAbruzzo-1.jpg 4 Febbraio 2021

Frammenti di considerazioni sulla divulgazione scientifica nel campo delle scienze della Terra

Scritto da Redazione IGAG -Disseminazione

In un paese in cui i geologi vengono tradizionalmente chiamati in causa solo dopo terremoti disastrosi e rischi vulcanici più o meno prossimi (mai prima), possiamo condurre le Scienze della Terra fuori dal terreno battuto delle previsioni impossibili e dell’emergenza. A maggior ragione oggi che il ruolo sociale del geologo è ormai consolidato e si impone anche nelle decisioni più squisitamente politiche e nelle scelte territoriali, ambientali ed energetiche. Non sempre, però, le informazioni passano appropriatamente dalla comunità geologica al grande pubblico e, anzi, spesso, non arrivano affatto: le colpe non sono solo degli operatori dell’informazione, qualche volta abbagliati da potenti flash spettacolari privi di contenuto, ma anche dei ricercatori che devono imparare a condividere linguaggi e mezzi che in passato non hanno saputo utilizzare. Per queste ragioni la comunità dei geologi italiani dovrebbe compiere uno sforzo senza precedenti, al fine di rendere maggiormente visibili le proprie tematiche e più sentito il proprio ruolo di azione nella società civile.

Non sembri strano, ma ancora esiste chi considera il geologo come una specie di rude uomo delle campagne, inesperto dell’uso del congiuntivo e dall’avverbiazione errabonda, magari appena sortito da qualche pubblicità di superalcolici nostrani con una pepita d’oro in mano o tutto sporco di petrolio. Noi sappiamo che il geologo è piuttosto un professionista formato, capace di valutare eventi e fenomenologie con prospettive originali, che guarda le cose da un altro punto di vista –spesso antipodali rispetto a quello più diffuso– come se osservasse la realtà naturale “da dentro” o “da sotto”, un “punto di vista” (una “visione”?) che non molti, esterni a tale professione, riescono a prendere in considerazione. E’ anche un problema di scala: dato che in genere il raggio di azione del geologo copre un’intera regione, quando non una nazione intera, benché il suo continui ad essere un lavoro di estremo dettaglio. In secondo luogo è una questione di tempo: i tempi con cui si misura il geologo sono estremamente più lunghi di quanto comunemente si immagini (e la considerazione non è scontata). Quindi la prospettiva spazio-temporale del geologo comporta elementi di confronto lontani, diversi da quelli dell’uomo che geologo non è. In questo contesto il geologo-divulgatore non è più l’esploratore demodé, armato di apposito martello, che esce ansimante dalle viscere di un vulcano per incamminarsi sulle montagne o discendere di nuovo nelle grotte guidato dalla semplice bussola magnetica E non è solo lo scienziato moderno, che ha cambiato i connotati al modello rappresentativo della Terra, rivoluzionato dalle fondamenta rispetto a quando si riteneva il Pianeta semplice sfera sclerotizzata, priva di attive dinamiche interne. E il geologo non è neppure l’inerte pensatore che –superata l’accusa kelviniana di trascorrere l’intera vita professionale come mero raccoglitore di francobolli (fossili e minerali)– ha obbligato fisici, filosofi, ed evoluzionisti (Darwin in testa) a fare i conti con una prospettiva di tempo fondamentalmente differente rispetto al passato: senza il tempo profondo dei geologi non ci sarebbe stata neppure la teoria della relatività. Per non parlare dell’evoluzionismo darwiniano, che tanto deve a spunti scurrili (per questi tempi) enunciati nei “Priciples” di Charles Lyell.

D’altro canto, invece, architetti, letterati, filosofi sono tutti un po’ geologi, come del resto ogni geologo è –fondamentalmente– uno “storico del Pianeta Terra”. E’ su questo terreno che ci si può confrontare. Cercare il condizionamento geologico sulla cronaca quotidiana non è un esercizio inconcludente, né futile divertissement: la sconfitta di Napoleone a Waterloo nel 1815 potrebbe essere stata causata anche dall’eruzione del vulcano Tambora, in Indonesia, e gli antenati di John Wayne potrebbero essere stati spinti in massa verso le Americhe dagli scarsi raccolti di patate, minati dalle medesime piogge intense che trasformarono in un pantano il teatro della battaglia di Waterloo.

La geologia ha ormai acquisito i connotati di una scienza anche sociale, che deve sapersi districare, mutandoli armoniosamente e con creativa normazione, anche tra gli ordinamenti politici e le anime, oltre che fra le opere dell’uomo. Ciò non deriva solo dallo stato deprecabile del territorio e dalla necessità di preservare meglio le aree antropizzate, è anche una necessità di carattere culturale. Fra le categorie dei cosiddetti tecnici, i geologi sono i più legati alla storia: leggere le pagine di antichi documenti per ricostruire il disegno della mente degli uomini non è poi tanto diverso dall’interpretare le rocce, i fossili e gli altri segni della Terra per rimettere insieme le pagine del racconto del pianeta. Il geologo esercita quella memoria collettiva della Terra di cui gli altri uomini, anche professionalmente formati, sembrano aver perduto le tracce in un confronto con le loro incommensurabilmente più limitate memorie parziali — e alquanto ristrette in quanto a durate e durevolezze.

Non c’è probabilmente bisogno di tornare a Mac Luhan per sapere che, nel mondo delle comunicazioni visive, la forma è contenuto, ragione per cui il messaggio che si vuole far arrivare al pubblico più vasto possibile deve essere confezionato in modo appetibile, fermo restando il rigore scientifico. Un messaggio scientifico rigoroso, ma noioso è fondamentalmente un messaggio inutile e duole riscontrare che questo è l’aggettivo meglio associabile a quanto prodotto nel campo della divulgazione delle scienze della Terra per mezzo della televisione negli ultimi decenni. Questa è anche una — e non l’ultima — delle ragioni per cui i geologi non sono quasi mai invitati, se non nell’emergenza, a divulgare la loro scienza.

Potrebbe però esistere una sorta di “terza via” –certamente non facile ma sicuramente praticabile– fra l’eccessiva semplificazione, regolarmente foriera di deterioramenti del patrimonio comune (e non sempre comunicabile) di conoscenze scientifiche multi-disciplinari, e la divulgazione astrusa — e con noti, perniciosissimi effetti di frapporre annoiate distanze tra comunicatori e comunicandi– che serve solo a rendere ridondante il flusso informativo fra esperti, non aumenta la base di pubblico né allarga l’interesse multidisciplinare e non produce alcun effetto concentrico di sviluppo culturale diffuso. Si può dunque tentare un recupero –pariterque monendo– del tautologico binomio informazione-intrattenimento che produce i risultati migliori in termini di divulgazione, allargamento della fascia di pubblico interessata e indice valutabile di oggettivo gradimento. Non mettere in difficoltà chi ascolta la scienza divulgata e insieme esprimere il senso comune è azione programmabile anche evitando quell’arroccamento della scienza “inconoscibile” per il non esperto, a cui pure tante volte si è assistito e che non di rado si fraintende come malaccorto tentativo di “frenare” spunti divulgativi grossolani o ritenuti anomali perché estranei a consueto, desuete ritualità comunicative accademiche o para-accademiche. Soprattutto quando l’obiettivo non è quello di formare un numero limitato di “esperti scienziati” muniti di adeguato corredo di credenziali professionali, ma quello –peraltro non meno difficile né meno oneroso– di fornire chiavi di accesso ai principi-base e credenziali interpretative del mondo naturale e relative dinamiche, aggiornare le conoscenze e suscitare un interesse anche in chi, in quella data fascia oraria, avrebbe guardato telenovelas o chat-shows.

Si può pensare che la divulgazione scientifica debba ritornare a essere compito dei tanti ricercatori e degli scienziati, solo così si potrebbe forse smaltire l’eccesso di metafore e analogie che caratterizza la divulgazione del sapere scientifico da parte della maggioranza dei giornalisti: ci sono storie da raccontare invece di aneddoti e non c’è bisogno di ricorrere a emozioni forti per accendere l’attenzione. Questo i geologi lo sanno fare per tutto il tempo della storia della Terra.